Zio Bennardo, 89 anni e in carcere da 33, è cieco e in sedia a rotelle: cosa vuol dire “marcire in galera”

Il caso ad Opera
La domanda perciò diventa: in che stato siamo ridotti? Un ottantanovenne cieco e in carrozzina rappresenta un pericolo per la nostra vita? Cosa ci guadagniamo oggi dal suo essere privato delle cure e della libertà?

Ha 89 anni, da 33 è rinchiuso in carcere e ora si trova nella Casa di reclusione di Opera, alle porte di Milano. I compagni di pena lo chiamano “Zio Bennardo”. Da otto anni è assiduo frequentatore dei laboratori di Nessuno Tocchi Caino, luogo di dialogo tra detenuti e “liberi”, spazio di ricerca, individuazione e ricostruzione – per gli uni, non di rado anche per gli altri – della propria identità. Gli esseri umani rinchiusi nelle carceri italiane patiscono trattamenti inumani e degradanti. Questo ha certificato, l’8 gennaio 2013, la sentenza-pilota (pilota perché non si limitava a giudicare la fondatezza delle doglianze dei ricorrenti, ma allargava il suo giudizio all’intero sistema penitenziario italiano) della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Nella causa “Torreggiani e altri contro Italia”, infatti, la Corte riscontrava che, in particolare a causa del sovraffollamento nei suoi istituti di pena (148% nel 2012), l’Italia violava l’art.3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Per questo ricordava che: “Lo Stato è tenuto a organizzare il suo sistema penitenziario in modo tale che la dignità dei detenuti sia rispettata” ed esortava l’Italia “ad agire in modo da ridurre il numero di persone incarcerate, in particolare attraverso una maggiore applicazione di misure punitive non privative della libertà”. Al 30 maggio 2025 (relazione del Garante Nazionale delle persone private della libertà personale), la situazione pare altrettanto disumana e incivile: sovraffollamento medio al 134%, in 10 penitenziari tra 236,84% e 187,34%. A dispetto della sua inciviltà, il carcere può divenire tempo e spazio di conversione dalla violenza alla nonviolenza, dalla barbarie alla civiltà. È anche per innescare e accompagnare questo percorso che l’associazione concepì i suoi laboratori, oggi sono diventati quattro, nelle sezioni di alta sicurezza. Li chiamò: “Spes contra spem”, un richiamo all’originale interpretazione che del motto paolino faceva Marco Pannella quando esortava tutti, in particolare i carcerati, a “essere” e non ad “avere” speranza.
Bennardo Bommarito questo cammino di speranza – quando ogni speranza sembra razionalmente essere preclusa – lo ha intrapreso e per i compagni di pena è divenuto “uno che non dice mai una parola fuori posto ma che, per tutti, ha sempre una parola di conforto e di pace”. Venerdì 8 agosto è arrivato nella sala del teatro del carcere di Opera in carrozzina, spinto dal suo compagno di cella Antonio D’Alì, ultrasettantenne, che lo accudisce amorevolmente ogni giorno. Perché carità, empatia e fraternità sopravvivono anche in questi luoghi. Chi ha partecipato negli anni ai laboratori di Opera e lo ha visto sempre vitale, allegro, sorridente, ha scoperto con sgomento che “zio” Bennardo all’improvviso è diventato cieco. Non vede più perché, dopo trentatré anni, tutto il suo essere rifiuta di continuare a vedere le sbarre, le celle, i corridoi, il cemento che lo contorna e lo sovrasta? Perché ormai non vuole vedere più nulla, nemmeno chi partecipa ai laboratori? Perché ha vissuto trentatré anni in spazi angusti dove l’occhio non può spaziare ed è ridotto a orizzonti di pochi metri? Questo non lo sappiamo.
Quello che sappiamo è che un uomo di quasi novant’anni in carrozzina e cieco rimane segregato in una cella. Si dirà che vi è rinchiuso in forza di una sentenza e di una pena irrogata regolarmente da un Tribunale della Repubblica. Ma il punto sembra non essere questo. Il punto sembra essere: in che Stato viviamo? La nostra Costituzione proclama che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato: quale rieducazione ci aspettiamo possa produrre il mantenere quest’uomo nelle patrie galere? Direttrice del carcere di Opera, Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria e Tribunale di Sorveglianza di Milano sono a conoscenza delle condizioni di Bennardo Bommarito. Agiranno? Quando? Come? Lo Stato – molti dicono – siamo noi.
La domanda perciò diventa: in che stato siamo ridotti? Un ottantanovenne cieco e in carrozzina rappresenta un pericolo per la nostra vita? Cosa ci guadagniamo oggi dal suo essere privato delle cure e della libertà? Pensiamo davvero che diventerà un uomo migliore se continuerà a “marcire in galera”? L’ardua sentenza non spetterà ai posteri ma a noi. Oggi. Alle personalità delle istituzioni, della politica. E dell’informazione. Perché la situazione di “zio Bennardo” grida perdono, non vendetta.
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